Visto l’inarrestabile dilagare dell’infatuazione digitale, nel nostro paese e nel Mondo intero, spenderò qualche parola sulla biggest fake-news cioè la presunta “neutralità della Rete”. Non è argomento da poco, perché l’intera costruzione della smart society, dalle autostrade in fibra ottica, all’interconnessione universale, alle blockchains, all’internet delle cose, alla guida autonoma dei veicoli per arrivare alle mitizzate piattaforme Rosseau della democrazia diretta e all’intelligenza artificiale partono dal presupposto che la Rete sia un ambiente neutrale da utilizzare per le sue formidabili potenzialità, riempiendola di opportune applicazioni e contenuti.

Bufala colossale. Bufala pericolosissima. La Rete non è neutrale, non lo è mai stata e oggi lo è meno che mai. Muoviamo due passi nella sua storia.

Internet nasce come Arpanet, la rete voluta dal predecessore dell’attuale Darpa, vale a dire l’agenzia federale USA per l’innovazione in campo militare. Come tale, è sempre stato vincolata agli interessi geopolitici di Washington. Non solo a causa della sua origine, ma per la banale ragione che Pentagono e agenzie varie federali ne hanno finanziato ogni singolo sviluppo, indirizzandone e condizionandone gli indirizzi.  L’indipendenza della Silicon Valley è pura propaganda. Tutti i giganti di Internet (Google, Apple, Facebook, You Tube, Yahoo!, Microsoft, Amazon, Paypal e via dicendo) nascono e prosperano sotto l’ombrello finanziario e la direzione strategica dei militari Usa. Forniscono a Nsa e Cia infiniti dati, al fine di spiare tanto i nemici quanto gli amici, ma soprattutto non possiedono la tecnologia che usano. Quindi, non esistendo senza i suoi investimenti, devono subire i desiderata di Washington.

Il microprocessore fu inventato per soddisfare un’esigenza militare americana, così come il telefono cellulare senza dimenticare la prodigiosa rete di cavi in fibra ottica sottomarini, scheletro indispensabile della Rete: posati e sorvegliati con amorevole e gelosa cura dall’apparato navale degli Stati Uniti. Non è affatto un caso che la maggioranza dei server di tutto il mondo si trovi fisicamente in territorio americano.

D’altronde basta un dato: le spese per ricerca e sviluppo del DoD, il Dipartimento della Difesa statunitense, sono ancora oggi pari a più del doppio di quelle sommate di Apple, Intel e Google. Di fatto, l’affermazione secondo la quale è stata la Silicon Valley a mettere in moto l’attuale rivoluzione digitale è un falso: non c’è stato nessun singolo sviluppo della Rete, né un solo “successo aziendale”, a partire da Microsoft per continuare con i “miracoli” della Mela di Steve Jobs, che non sia direttamente dipeso dai finanziamenti e dal supporto tecnologico del Pentagono e delle agenzie di intelligence.

Non solo. Anche la pretesa che un pugno di adolescenti brufolosi abbia messo a punto gli algoritmi che fanno girare la Rete è una falsità: hardware e software dell’era digitale hanno la stessa provenienza, il denaro riversato a fiumi da Washington assieme a tutte le risorse tecnologiche e intellettuali variamente combinate per consentire agli Usa di conseguire una posizione di assoluto dominio dello spazio cibernetico. Tutto ciò ha avuto come conseguenza d’impedire la reale sovranità di ogni altra nazione, compresa la Russia e, almeno in parte, la Cina.

L’interesse statunitense è rendere “aperto” ogni sistema per inglobarlo nella Rete sviluppata a proprio uso e consumo per assumerne il controllo. Persino la dezinformacija attuata dai trolls del Cremlino è costretta a passare sotto le Forche Caudine delle piattaforme americane. Quindi, a essere di fatto riconoscibile e vulnerabile. Come dimostra la campagna di primavera del Cybercommand Usa che ha di fatto annientato FAN di San Pietroburgo, cioè il principale produttore e diffusore russo di fake-news.

Il vero problema per Washington oggi è rappresentato dalla Cina. Trattandosi di un sistema chiuso, su cui Pechino ha finora imposto regole non aggirabili, è ancora l’unico ambiente sottratto alla penetrante pervasività del cyberpower statunitense. Del resto, la sfida a tutto campo tra i due giganti del Pianeta è ormai realtà da tempo. È dalla somma delle considerazioni appena fatte che deriva l’impegno cinese per cercare di modificare una situazione tanto sfavorevole. Il progetto delle “Nuove Vie della Seta”, non per caso, implementa tanto un approccio infrastrutturale che cibernetico, come le recenti disavventure canadesi della vicepresidente di Huawei e gli “avvertimenti” agli alleati, in primis all’Italia, sulle reti 5G di Huawei dimostrano.

Il vero obiettivo cinese consiste nel tentare di sottrarsi all’egemonia statunitense per stabilire intanto una propria sfera autonoma, tanto nel campo reale che in quello virtuale. Nella speranza, è ovvio, di scalzare un giorno Washington dal suo trono. Riuscirà nell’impresa l’Impero di Mezzo?

A questo punto, però, vista dalla nostra laguna la faccenda spinge a qualche considerazione conclusiva.

Primo: la Rete è un luogo pericoloso dove si combatte da sempre una battaglia senza fine, costellata di morti e distruzioni come qualunque altra. Sinora i vincitori sono stati gli Usa, il futuro però non è così scontato. Ne consegue che tutte le utopie basate sulla presunta neutralità del cyberspace e sulla “purezza” del suo quadro di riferimento siano delle emerite sciocchezze.

Secondo: non sarebbe il caso di cominciare almeno a pensare a emanciparsi dal servaggio finora impostoci? Intanto, credendo meno alle troppe bufale pseudo libertarie che circolano sulla materia e finendo con il costruire un’infrastruttura basata su hardware e con software davvero “sovrani”?

Già, perché passare dall’egemonia statunitense a quella cinese non è davvero una gran prospettiva e nemmeno quella di assistere all’esito del duello come i classici agnellini in attesa di finire comunque sopra uno dei due altari. Non vi pare?[1]

[1] Per una panoramica sull’argomento e i numerosi riferimenti bibliografici di ogni tipo, consiglio la lettura di Limes 10-2018 «La rete a stelle e strisce».