Ammettiamolo, in fondo al nostro cervello siamo tutti un po’ marxisti. Ogni volta che succede qualcosa in giro per il Mondo pensiamo che a tirare le fila siano grandi e oscuri interessi economico/finanziari. Quindi, per risolvere eventuali crisi, niente di meglio e comunque più efficace che colpirli. La Russia invade l’Ucraina? La ragione sono le Terre Rare del Donbass, il grano delle Pianure e via dicendo. Noi smettiamo di comprare gas, petrolio e qualsiasi altra cosa da Putin, in più gli blocchiamo il sistema internazionale di pagamenti Swift, a stretto controllo americano, e lo mettiamo in ginocchio. Così sarà costretto a tornare indietro. O a trattare. Facile. In fondo, basta essere disposti a sacrificare qualcosa nel breve, massimo medio periodo e il gioco è fatto.

La politica? «… come i taxi: utilizzo, pago il dovuto e scendo…» disse dei partiti Enrico Mattei, leggendario presidente dell’ENI. Quindi, sono i soldi, cioè l’economia, a governare il Pianeta. Karl Marx l’aveva messa in modo diverso, scomodando l’inesorabile dinamismo di interagenti «forze produttive», individuate come motore del mondo in quanto inarrestabili. La Storia diventata un meccanismo ineluttabile, che si può decifrare grazie a un approccio scientifico: basta individuarne le leggi.

Chissà se Marx fosse cosciente di quanto dovesse al suo arcinemico ideologico, Adam Smith, e al concetto di «mano invisibile del mercato». Vale a dire il meccanismo per cui la Storia avanza e le Società si organizzano al meglio in virtù della propensione degli individui a perseguire il proprio profitto. Spinta all’apparenza diversa e per nulla interessata a produrre risultati oltre il guadagno del singolo, ma elevata allo stesso ruolo delle marxiane «forze produttive». E come tale altrettanto individuabile e utilizzabile a fini di analisi per il futuro.

Liberalismo e Marxismo con basi comuni, allora? Diciamo che condividono un concetto di base: l’Economia e non la Politica guida la danza sociale. Per i liberali classici la soluzione migliore era lasciar fare agli individui mossi dalla ricerca del profitto, la politica meno interferisce e meglio è; per i marxisti la sola attività della politica consiste nell’inserirsi nel movimento ineluttabile della storia per interpretarlo e comprenderlo. Alla sostanza ci pensano le «forze produttive». Quindi la risposta è sì, liberalismo e marxismo condividono il medesimo errore di fondo. L’idea, cioè, che l’Economia sia l’accendino del Mondo. Il quale diventa in questo maniera un luogo dove gli eventi possono essere in qualche modo oggetto di previsione.

Nessuno dei due, infatti, riflette a sufficienza sul fatto, pure evidente, di quanto la pre-condizione per l’avverarsi della premessa sia l’assenza d’interferenza. Qualunque questa sia. Di tipo naturale, prendiamo una catastrofe ambientale, oppure squisitamente umana: guerre, rivoluzioni, invenzioni. Certo, s’arrampicano sugli specchi sostenendo che «forze produttive» e «mano invisibile» siano animali adattivi, quindi talentuosi nello sfruttare i cambiamenti ai propri fini. Il che è pur vero, ma la capacità di rispondere alle difficoltà è tutt’altra cosa dall’essere comunque i protagonisti della vicenda.

Karl Popper, il quale era per altro liberale, demolì la pretesa storicistica di poter predire gli eventi. Nella sua riflessione non c’è spazio per l’inesorabile meccanicismo della scuola marxista, ma neppure per il gaio ottimismo degli economisti classici: del resto scrive nel Novecento, secolo segnato da due conflitti mondiali, dal trionfo delle dittature variamente fasciste e comuniste, ma anche plastica dimostrazione che non si può, semplicemente, restare a guardare nell’attesa la naturale tendenza del singolo a cercare il profitto, per magica virtù, risolva nella maniera migliore i problemi sociali e neppure limitarsi ad analizzare le «forze produttive» in azione nel momento.

La Grande Lezione della Storia è proprio questa: l’Economia gioca senz’altro la sua parte, ma è niente più di un singolo fattore al tavolo delle convulsioni del Mondo. Le quali, al contrario di quanto pensava Popper per altro, in qualche modo sono anticipabili. A patto di partire dalla Volontà degli uomini incardinata nella Geografia che incanala le scelte, vincolandole spesso in maniera decisiva. Se queste in fase di formulazione appartengono alla libera determinazione degli individui, quindi devono molto alle loro convinzioni di natura ideologica, in quella realizzativa sono sottoposte alle condizioni della realtà. Da qui la Geopolitica ovvero l’arte di governare il presente e di programmare il futuro tenendo conto di dati di base ineliminabili e derivanti, per lo più, dalla collocazione geografica, propria e altrui. In termini più precisi, si determinano riguardo alle Comunità socio-politiche quelle che sono chiamate costanti geopolitiche di lungo periodo. Le quali partono dal posizionamento degli attori, ma integrano al loro interno Storia, Economia, Cultura, Religione e tutto quanto produca l’Identità di una collettività secondo quanto proposto dalla Teoria della Complessità applicata alle scienze sociali.

Si tratta della premessa per capire, ad esempio, da dove venga la spinta verso Occidente e Meridione della Russia di Putin: determinata sì da interessi economici, ma eredità sovietica e prima ancora zarista. È dal XVII secolo che, senza alcuna interruzione salvo quelle causate dalle guerre perdute, chi è al potere tra Mosca e San Pietroburgo tende a inglobare nel Russkij Mir, lo spazio russo e dimensione puramente ideologica, tutto quanto si trovi a oriente della linea Danzica-Costanza, cioè la congiungente Mar Baltico-Mar Nero oggi spesso definita Istmo d’Europa. Sempre con l’aspettativa di rompere le catene che impediscono di raggiungere Atlantico e Mediterraneo, senza sottostare all’arbitrio di nessuno posto a cavallo di Kattegat e Dardanelli. Entrambi in mano alla Nato, c’è da osservare.

L’obiettivo non è certo economico, né tale espansionismo è figlio del dinamismo di arcane «forze produttive» in fermento, neppure di una qualunque «mano invisibile», perché non è l’arricchimento di oligarchi già straricchi ad avere messo in moto tale processo: è invece una costante geopolitica che spinge chi controlla le pianure euroasiatiche, la Russia, a dilatare la propria sfera fino a raggiungere prima i mari caldi e quindi l’egemonia mondiale. Motivo per cui Mosca è così attiva oggi anche nel Sahel: si tratta di aggirare la strettoia dei Dardanelli e raggiungere l’Atlantico attraverso il Sahara. Fantasie? Basta guardare una carta geografica e posizionare le frecce dell’attivismo russo.

Niente di più di quanto ogni Impero di Terra tenda a fare, specie se, come nel caso russo, si trovi già nel cuore dell’Isola Mondo chiamata anche Cuore del Pianeta. Una situazione che mette la Russia nella posizione di confrontarsi con gli interessi di Pechino. In passato gli Zar hanno provato ad arrivare al Mar Cinese conquistando lo spazio necessario ovvero partecipando alla sottomissione della vasta area compresa almeno tra i fiumi Amur e Giallo. Dal 1949, però, a Pechino si è installato un regime con parecchio in comune con quello moscovita. E quando al Cremlino è arrivato il bizzarro incrocio tra un agente segreto ex-sovietico e un aspirante Zar ortodosso, chiamato Putin, e a Pechino il grigio burocrate Xi Jinping si sono resi contro che, messi insieme, acquistavano una massa critica in grado di rompere l’accerchiamento entro cui l’Impero di Mare americano ha, da metà Novecento, ingabbiato l’Isola Mondo. Dominando così il Pianeta. Quando, l’Impero è sembrato abbastanza debole, hanno attaccato. Con prudenza, perché l’«operazione militare speciale» è andata aumentando di dimensione solo per l’inaspettata resistenza ucraina, alimentata dalla Nato.

È ovvio che all’interno di questo schema l’economico assurga ad arma: la quale è solo una tra le tante utilizzabili nel corso di quella che oggi si chiama guerra ibrida: non certo una novità del contemporaneo, come la Storia insegna. Questo è il punto che dobbiamo tenere presente, anche per decidere cosa fare. Perché dobbiamo capire che non siamo estranei, come Europei e Italiani, a quanto avviene. Noi siamo l’Occidente, quindi il nemico da abbattere. Per Russi, Cinesi, Indiani, Iraniani, Houthi, Hezbollah e chi più ne ha più ne metta. Il fallimento delle sanzioni contro la Russia non porta solo il nome della Cina, ma di tutta quella parte del Mondo che vuole distruggere l’Impero dell’Occidente. Il quale ha garantito a noi, ma non certo agli altri che se ne considerano vittime, pace e benessere fino a oggi. Siamo coscienti di cosa significherebbe la sua caduta? Quando gli Imperi crollano la cosa non avviene mai in maniera indolore. Forse sarebbe meglio provare a mantenerlo. In questa ipotesi, qualche sforzo bisognerà pur farlo. Quanto del nostro benessere presente siamo disposti a sacrificare per tenerlo in vita? L’alternativa è precipitare nel girone dantesco degli sconfitti, travolti dall’odio dei vincitori. Mettiamocelo in testa.

Temo che i termini della questione non siano per niente chiari, come non lo è che comunque si pagherà un prezzo. Salato. Negli ultimi 35 anni, quelli passati dal crollo del Muro di Berlino in avanti, ci siamo abituati a non spendere per la difesa, a smantellare le fabbriche che producevano armi e munizioni, a far combattere pochi specialisti, sufficienti, grazie alla supremazia tecnologica, a vincere lontano da casa e senza troppi costi. Tutto ciò è finito. L’Ucraina sta perdendo perché noi non siamo in grado di alimentarne lo sforzo bellico per mancanza di capacità produttiva. I nostri magazzini sono vuoti e le nostre armi non sono neppure dal punto di vista qualitativo superiori a quelle avversarie, non quanto sarebbe necessario almeno. Non disponiamo, cioè, di nessuno dei vantaggi competitivi ai quali eravamo abituati. E il Resto del Mondo si è pure attrezzato, dal punto di vista sistemico, per fare a meno dell’Occidente. Riuscendoci in buona misura.

È venuto il momento di reagire. Per sopravvivere. Come civiltà, innanzitutto. E tanto per cominciare bisogna sterilizzare i traditori interni tipo Roberto Vannacci, l’uomo che sotto il pretesto dei valori tradizionali cerca di trapiantare a casa nostra la dimensione culturale di Mosca. La quale non ha niente a che fare con l’Occidente: il quale è aperto, inclusivo, democratico, pluralista, laico, multietnico e libertario. Cos’ha in comune con le oscurantiste oligarchie euroasiatiche? Niente. I Vannacci di casa nostra sono i nostri peggiori nemici, perché Quinte Colonne incistate nel corpo vivo dell’Occidente per distruggerne l’anima. La quale è lontana anni luce da quella del patriarca Kyrill. È Vannacci a non rappresentare l’Italia e/o l’Europa non Paola Enogu o i rossi di capelli. Dopo di che bisognerà rassegnarsi ad abbandonare qualche comoda abitudine e affrontare la realtà: siamo in guerra, la faccenda sarà lunga e bisogna vincere. A ogni costo. Altrimenti davvero per i nostri figli non ci sarà futuro. Pensiamoci finché siamo in tempo. Si vis pacem, para bellum, come al solito dagli Antichi arriva un insegnamento prezioso.

Bisogna tornare a produrre armi e munizioni e a formare e addestrare soldati in numero adeguato. Questo anche solo per non vedere trasformate le nostre città in altrettante Kharkiv o Mariupol. Tra l’altro, ce l’hanno già promesso: vediamo di non fare come con Hitler. Allora si rimase sorpresi, ma in definitiva mise in atto solo quanto aveva detto e scritto. Fu solo coerente. Anche Putin e Xi Jinping lo sono. Quindi né l’Ucraina, né Taiwan devono cadere. Mai. Vannacci, intanto, lo mettiamo a riposo. Davvero non serve. Se non a Mosca e Pechino.