Porti, aeroporti, strade, ferrovie, metropolitane, reti idriche, energetiche, telematiche, autostrade del mare, fluviali, trafori, centrali elettriche, centri di smaltimento rifiuti e via dicendo. Con la parola infrastrutture possiamo intendere un bel po’ di manufatti, sempre complessi e di grande impatto sul territorio. Perché di questo si può star certi: a un beneficio spesso fumoso e, comunque, spostato in là nel tempo corrispondono di norma conseguenze importanti sull’ambiente e sui nostri portafogli. Al punto che, secondo molti, le Grandi Opere servono per lo più a chi le costruisce. Fosse pure onesto, eventualità, purtroppo, la maggior parte delle volte per lo meno dubbia.
Non resta che rinunciarvi, allora?
La riposta istintiva quasi scontata vista l’aria, davvero gelida, in giro negli ultimi tempi. Vediamo però di riflettere.
Non c’è dubbio ci sia molto da rivedere sulle modalità di individuazione, progettazione, finanziamento e controllo delle Grandi Opere. Neppure che qualsiasi comunità ne abbia un disperato bisogno. In fondo lo vediamo durante quei, per fortuna, rari blocchi di sistema capaci, per quanto limitati nel tempo e nello spazio, di spedire nel buco nero di una crisi di nervi gli utenti rimasti vittima.
Cosa succede quando manchi l’energia elettrica? O si fermi l’erogazione dell’acqua? Se le strade si intasano al punto da impedire gli spostamenti? O i treni non corrono più? Così come i tram e gli autobus? Se le scuole o gli ospedali chiudono?
Potrei continuare, è evidente: in tutti questi casi, l’unico esito sicuro è il panico. Ci siamo così abituati al normale funzionamento, di ogni singolo snodo, di questi sistemi complessi da considerare affronto personale il fatto di non potercene servire. E non è questione di banale pigrizia.
Risulta difficile da accettare, ma dobbiamo ammettere che la qualità della nostra vita è migliore quando le Grandi Opere realizzate in passato lavorano bene. Spesso chi le ha costruite non ha neppure potuto goderne o, se c’è riuscito, con benefici tutto sommato modesti. Siamo noi, i successori, gli eredi talvolta ingrati e per nulla meritevoli ad averne vantaggio.
Transitiamo felici su altissimi viadotti o dentro gallerie scavate nel cuore delle montagne a velocità impensabili, grazie all’acciaio, al cemento e all’elettronica disseminati con generosità lungo ogni chilometro del percorso. Stiamo al caldo e se apriamo il rubinetto ci godiamo l’acqua di qualunque temperatura per lo stesso motivo. Infine, se siamo costretti a ricorrere a un ospedale, ci fa piacere sia al meglio, quanto a tecnologie disponibili.
In tutti questi casi, chi ha preso la decisione di costruire si è limitato a coltivare un’aspettativa. Ha speso energie e denari, è intervenuto sul territorio e lo ho modificato convinto di agire per il bene comune. Peccato fosse futuro e non avesse modo di beneficiarne. Per nostra fortuna, però, è andato avanti.
Il problema Grandi Opere, infatti, sta tutto nella prospettiva che ci diamo. Se la nostra è solo quella di un’esistenza individuale, è palese, non si dovrebbe mettere mano a nulla. Sono ben poche le infrastrutture utili subito. Forse appena quelle viarie, se completate in tempi brevi. Oppure le telematiche, capaci di velocizzare e rendere stabili connessioni lente e difficili. La maggior parte, in particolare quando l’intervento sia di grandi dimensioni, manifestano con lentezza la loro efficacia.
L’impazienza, si sa, è uno dei mali contemporanei. Al pari della convinzione di vivere un’epoca di degrado, dominata da irrimediabile vizio e corruzione. Lo storico sa bene quanta emotività ci sia alla base di tali giudizi. L’uomo è un animale singolare, capace di straordinari gesti e imprese ma, allo stesso tempo, nel medesimo luogo e a opera degli identici soggetti in grado di qualunque bassezza e crudeltà. Non si tratta di un discorso da filosofi, bensì di semplice constatazione.
Cosa ne facciamo, allora, di queste Grandi Opere, delle infrastrutture pesanti, in ogni senso: ci rinunciamo?
Sarebbe follia miope e autolesionista. La prospettiva dev’essere sempre profonda e ampia, capace di abbracciare l’orizzonte delle necessità, coniugandolo con la valutazione delle conseguenze. Senza mai dimenticarsi del controllo in corso d’opera. Dei controlli del controllo. Di sostituire i singoli, anche se soltanto opportuno. Della continua verifica delle regole. Rinunciando all’utopistica idea di aver trovato, alla fine, il sistema perfetto. Questo, semplicemente, non esiste. È utopia destinata a restare disattesa. Perché il problema è nel protagonista assoluto, cioè l’uomo in quanto tale. Il predatore più pericoloso e deludente che abbia mai calcato il Pianeta. Allo stesso tempo, nei suoi vertici, di gran lunga il migliore e l’unico geniale.
Le Grandi Opere servono. Le infrastrutture sono indispensabili. A noi, forse, a chi verrà dopo di sicuro. Il nostro problema è di individuare con sperabile approssimazione quali realizzare tra le molte che ci verranno in mente. Dopo, di seguirne la costruzione cercando di evitare le peggiori ricadute negative. Senza mollare, però. Sarebbe una resa. Codarda e ingiustificata.
Concludo con un esempio evidente. A Roma la metropolitana sotterranea ha prodotto incredibili disastri. Finanziari in particolare. Per i romani e la città nel suo complesso, però, andare avanti, completare quanto in sospeso e procedere oltre, riuscendo a dotare l’Urbe di un sistema di trasporti pubblici esteso, veloce e sicuro è di vitale importanza. Per la qualità della vita, senz’altro, ma non solo: oggi il traffico di superficie sta uccidendo, in senso letterale, gli abitanti. Gli sbagli del passato non sono giustificazione valida perché il presente rinunci a progettare il futuro. La linea numero 3 dev’essere completata.
Discorso che riguarda anche Venezia, è evidente, e qualunque realtà di questo dannato e meraviglioso paese. Tanto per dirne una: potremmo iniziare a costruire una rete di stazioni di rifornimento veloce per automobili elettriche. L’industria è pronta a fornire auto e bus ormai abbastanza efficienti, gli utenti, a partire da quelli pubblici, a comprarli e usarli. Mancano, però, le stazioni di servizio. Le facciamo? I polmoni di tutti ce ne sarebbero grati.