20«Uno spettro si aggira per l’Europa», in particolare dopo il referendum britannico, più famoso ormai con l’acronimo Brexit. Uno spettro dal retrogusto amaro e con radici ben piantate nel cuore della storia del Vecchio Continente: quello del nazionalismo.

La citazione marxiana ha l’ovvia intenzione di una provocazione. Se nel 1848, infatti, il Manifesto del Partito Comunista iniziava con la famosa frase per evocare l’ombra della rivoluzione in movimento, oggi mi pare di cogliere un fenomeno simile, anche se di segno assai diverso riguardo al nazionalismo. Il quale è tornato di prepotenza all’ordine del giorno.

Non è che nel 1848 fosse assente, tutt’altro, ma allora la rivendicazione nazionale si saldava con quelle di ordine sociale, accese dal progressivo espandersi della prima rivoluzione industriale, e ne diventava quasi una sorta di appendice. Se fenomeni tipici dell’ancien régime erano monarchia assoluta multietnica e società contadina, una passata appena di modernità sopra l’idealizzato feudalesimo medievale, allora, inevitabilmente, rivoluzione industriale e politico-sociale dovevano andare a braccetto. E quale il nemico per antonomasia della monarchia multietnica? La repubblica democratica nazionale.

La precisazione è necessaria dato i tempi che viviamo. Oggi l’Europa è scossa da febbre nazionalista pressoché a ogni latitudine. Si tratta, però, di un nazionalismo nostalgico che guarda a un ipotetico passato felice, una sorta di presunta età dell’oro alla quale si dovrebbe tornare per superare i problemi contingenti ed esorcizzare le, tante, paure del domani.

Questo genere di nazionalismo, il peggiore perché diventa sempre xenofobo, trova poi modo di generare mille articolazioni particolaristiche, che entrano in singolare conflitto con la sua stessa matrice originaria. Perché se la parola nazione entra a far parte del vocabolario spagnolo, cioè castigliano diciamo adesso, a metà dell’Ottocento per intendere l’esistenza di una nazione spagnola accade che oggi venga usata per contestarne la realtà a favore di altre, preesistenti e più solide comunità nazionali: basca, catalana, galiziana e via dicendo.

Ho fatto l’esempio iberico solo per evitare le solite, trite, polemiche di casa nostra. Il meccanismo, comunque, è identico in Spagna, Francia, Italia, Belgio per non parlare delle frantumate Jugoslavia e Cecoslovacchia. Si può tranquillamente estendere altrove, a ogni modo. Per esempio alle Isole Britanniche.

Scozzesi vs. inglesi, gallesi e irlandesi, in quanto celti, contro tutti e via dicendo. Ovunque e sempre esiste una sorta di piccola patria che viene spacciata per la sola autentica e in grado, grazie alla sua indiscutibile coesione interna, di affrontare le sfide di presente e futuro.

Peccato che tutto ciò anziché ricchezza culturale produca sempre più spesso chiusura mentale e, da ultimo, anche materiale verso chi non possa vantare identiche radici. Da qui la xenofobia. Il rialzarsi delle barriere alle frontiere. Il filo spinato. I muri. Materiali e non.

Il nazionalismo soffia forte ovunque. Poi si generano curiosi cortocircuiti come nel caso del Canton Ticino. I fieri lumbàrd a sud delle Alpi devoti al verbo padano hanno scoperto di essere considerati dei terroni indesiderabili dai lombardi, perché questo sono dal punto di vista linguistico, sistemati appena al di là del confine. I quali ticinesi, sia ben chiaro, in un divertente gioco del domino, farebbero la stessa fine nei confronti degli svizzeri-tedeschi a loro volta guardati con sospetto dai vicini di Germania in quanto… parlano un dialetto pressoché insopportabile.

Insomma, tutti sono a Sud, a Est o a Ovest di qualcun altro, non c’è speranza di salvezza. Come mai questo nazionalismo d’accatto ha così tanta fortuna, allora? Perché di fronte ai problemi la soluzione più comoda, e a portata di mano per chi detiene il potere o lo vuole conquistare, consiste nell’inventarsi un pratico nemico, meglio se in carne e ossa e non in grado di difendersi, su cui scaricare le responsabilità. Fenomeno sempre esistito e destinato a durevole fortuna.

Prendiamo il caso della Brexit. Cosa di più facile di ritenere l’Europa e la costruzione dell’Unione la causa di ogni male per la felix Britannia? Manca poco e Bruxelles verrà pure accusata da qualcuno amico di Farange, a proposito a Strasburgo sono i nostrani pentastellati per chi avesse memoria corta, di portare la responsabilità della fine dell’impero. Brexit, così ha vinto, c’è stata persino una fiammata di euforia nell’immediato, qualche sprovveduto ha trasformato alcuni dati parziali di breve periodo come il segno che i gufi anti-Brexit avessero torto. Già, passato qualche mese, però, le cifre si stanno riallineando e lo spettro della recessione e della fuga dalle isole comincia a materializzarsi. Anche perché i malesseri, veri o presunti, della società britannica trovano spiegazione al suo interno e non certo in qualche misterioso e lontano burattinaio.

Il caso più evidente e, sotto certi aspetti clamoroso, però arriva dalla cosiddetta Nuova Europa, vale a dire dalla galassia dei paesi già comunisti entrata di recente nell’Unione e nella Nato. La loro adesione è stata entusiasta, all’inizio, e con ogni probabilità un po’ frettolosa. Qualcuno l’aveva pure detto.

A stupire un osservatore come me, però, è il livello oltranzista assunto dai nazionalismi esteuropei. Ci troviamo di fronte a qualcosa d’inusitato e sorprendente. Sono state rispolverate forme e simboli di un passato che si pensava consegnato per sempre ai libri di storia. Non per niente abbiamo assistito a vere e proprie guerre, combattute sul terreno e non certo solo culturali e verbali. Talvolta mi chiedo se al momento dell’adesione all’Europa ne avessero mai letto i documenti fondativi. Non parlo nemmeno del suo atto intellettuale iniziale, cioè il Manifesto di Ventotene.

Il nazionalismo di oggi ha una curiosa caratteristica morale: vuole partecipare all’Unione, godere di ogni suo vantaggio, ma non appena possibile sganciarsi dalle connesse responsabilità. In caso di problemi, poi, è l’Unione a doversene, collettivamente, fare carico. Forse sarebbe il caso di cominciare a fare chiarezza in materia. Mi sembra che, dopo aver a lungo tollerato le intemperanze di troppi, con la Brexit finalmente si sia imboccata la strada giusta: se sei dentro ci sei, altrimenti sei fuori. Da tutto. L’era dei matrimoni «troppo affollati», tanto per citare un’illustre figlia delle isole britanniche morta in un incidente qualche anno fa, pare avviarsi davvero al tramonto. Meglio tardi che mai. Dovrebbe valere per tutti i nazionalismi, piccoli o grandi che siano. L’Unione non può essere considerata un autobus sul quale si sale e si scende a seconda della convenienza del momento.