Siamo in guerra. Possiamo fingere non sia così, baloccandoci con l’idea che in assenza di un formale voto del Parlamento permanga lo stato di pace. È noto, siamo attori magnifici, capaci d’interpretare a soggetto, saturi di puri-secolare ipocrisia. Il fatto è che, invece, in guerra ci siamo davvero. L’intero Pianeta lo è, ci piaccia o meno.

 

«Mi viene spesso chiesto perché i miei post sono così duri. La risposta è che li odio (gli occidentali, ndr). Sono bastardi e imbranati. Vogliono la nostra morte, quella della Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire.»

 

Lo ha scritto sul suo canale Telegram l’attuale vicepresidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, Dmitry Medvedev. Federazione della quale è stato anche presidente e primo ministro. Non proprio uno qualunque, che parli a vanvera dopo essere naufragato nella vodka insomma. Il merito di Medvedev è di avere esplicitato quanto finora solo alcuni estremisti del pensiero, quale il suo connazionale Aleksandr Dugin, hanno avuto il coraggio di manifestare: la questione riguarda l’esistenza stessa dell’Occidente, i suoi valori, il suo stile di vita[1]. Noi siamo «bastardi e imbranati» da eliminare, per sempre.

Questa guerra, dunque, non riguarda solo noi e neppure un limitato numero di paesi. Come succede ormai da un paio di secoli, almeno, non c’è angolo del Pianeta non sia coinvolto. La globalizzazione dei conflitti non è affatto un’invenzione recente. Anzi. Perché non lo è la lotta per il Dominio del Mondo: questa è la posta in gioco, con buona pace delle anime belle e della pigra morale della maggioranza delle persone.

Chi porta la responsabilità di una guerra? I governi degli Stati, è la prima risposta. Di quelli aggressori, tanto per cominciare, ma anche aggrediti e cosiddetti neutrali giocano la loro parte. Il più delle volte i secondi, partecipano sottobanco, fornendo armi, aiuti di ogni genere, retrovie, sostegno culturale. Davvero qualcuno pensa che in Viet-Nam, per esempio, siano stati i soli vietnamiti a sconfiggere gli USA? Spero di no.

Governi, si è appena detto. Sono loro a prendere le decisioni. Quindi, onori e oneri in pari misura. È vero? Non del tutto. Perché non esiste conflitto al mondo capace di proseguire in assenza del consenso dei governati. Lo dimostra un pensatore strategico come Clausewitz quando scrive che nessun paese abbastanza esteso, men che meno un impero dunque, può essere conquistato e controllato con la sola forza militare. L’ultima prova si è avuta in Afghanistan. Non c’è supremazia tecnologica o esercizio illimitato di violenza in grado di avere ragione dell’ostinata opposizione di un intero popolo. Ovviamente, l’aiuto esterno, specie se massiccio, resta fondamentale per ogni resistenza. L’Ucraina oggi ce ne fornisce la dimostrazione.

L’osservazione circa la necessità di ottenere il consenso dei governati è palese nelle democrazie. Qui il dissenso può assumere in modo fulmineo forme di sofisticata organizzazione, contando su spazi fisici e morali impliciti nei loro valori fondanti. Vale lo stesso, però, nelle rivali odierne, autodefinitesi democrature o democrazie illiberali, dove il supporto al governo autoritario nasce da uno scambio di base: crescente benessere economico contro silenzio/assenso politico. Garantito il primo, lo è pure il secondo. Per questo il meccanismo può saltare se cessa la crescita continua. Pure nelle dittature radicali, però, i governati prestano un qualche tipo di consenso. Legge e ordine con almeno stabilità economica rappresentano l’offerta su cui si raggiunge l’accordo.

Resta il fatto incche democrature e dittature possono contare sul controllo dei mezzi di comunicazione per plasmare l’opinione pubblica, nonché su quello della scuola per forgiare cuori e menti giovanili. Eppure, in ogni caso devono poter contare sul consenso esplicito dei governati. Il collasso dell’Impero Sovietico, con lo scioglimento del Patto di Varsavia e il crollo dell’URSS, è un esempio di svolta radicale in un sistema consolidato e dispotico imploso per disobbedienza interna. Polizie politiche, servizi segreti invasivi, partiti unici al potere non sono bastati. I regimi sono caduti. Né l’osservazione muta risalendo indietro nel tempo. La sconfitta in guerra, minando le basi dello scambio sin lì garantito, ha sgretolato l’appoggio di cui da vent’anni godeva il fascismo in Italia. Per converso, solo il perdurante consenso goduto dal nazismo ha potuto produrre la continuazione tedesca della guerra, sino all’ invasione della Germania e alla sua frantumazione tra infiniti lutti e distruzioni. Lo stesso consenso che aveva permesso la creazione e il funzionamento dei campi di sterminio.

Vale la pena ricordare come dopo la caduta del III Reich tutti si siano affrettati a dimenticare quanti fossero i non-tedeschi nelle mitiche Waffen-SS e nelle SS: francesi della 33rd Charlemagne furono, per esempio, gli estremi difensori del bunker della Cancelleria. L’anti-semistimo è stato a lungo ideologia condivisa nel sottosuolo culturale delle società europee.

Il consenso dei governati, insomma, è indispensabile. Ai giorni nostri, Zelensky non potrebbe costringere gli ucraini a combattere, subire devastazioni e distruzioni. Qualcuno osserverà che, in definitiva, è più facile quando si è vittime di un’aggressione. Tuttavia, qua si tratta di morire sul campo. Serve altro. Identico ragionamento per i russi. Né si deve crede sia scontato riuscire a far combattere a prescindere soldati di professione. Vale a dire, quanti chiamati un tempo mercenari e oggi, ipocritamente, contractors. Un “normale” soldato non uccide a comando, un certo livello di consenso è indispensabile. Se non altro per il banale motivo che rischia la propria vita o mutilazioni permanenti.

Per portare un paese in guerra, in conclusione, non basta la volontà, per quanto feroce, di un qualunque governo. È indispensabile il supporto dei governati. Tanto più quando operazioni, caduti e costi crescano nel tempo. Pertanto, la difesa di tanti imputati al processo di Norimberga o nel successivo di Francoforte di aver obbedito agli ordini di un potere legittimo è insostenibile. La responsabilità è sempre individuale e se si parla di Stato coinvolge una massa di individui. Ciascuno dei quali se ne assume una parte. Da qui il dovere, non il diritto bensì proprio il dovere, di ribellarsi alle leggi ingiuste pur emanate in modo regolare dagli stati. Il dilemma è chiaro:

 

«Le leggi ingiuste esistono: dobbiamo essere contenti di obbedirvi o dobbiamo tentare di emendarle, obbedendovi fino a quando non saremo riusciti nel nostro intento, oppure ancora dobbiamo trasgredirle da subito?»

 

Lo scrive nel 1849 Henry David Thoreau. Riguarda ciascuno dei casi appena ricordati. In modo diretto e personale, oggi, ogni cittadino della Federazione Russa: sia quanti sparano in Ucraina, sia quelli che supportano lo sforzo bellico, ma anche gli indifferenti e gli inerti di fronte a quanto accade. È importante ricordare che non è necessario ognuno «faccia tutto», ma basta ciascuno «faccia qualcosa», per usare di nuovo le parole di Thoreau. Proprio perché la responsabilità è individuale. In fondo, basterebbe ricordare che nel 1989 nell’URSS andò proprio così.

[1] Ho già trattato tale questione nei precedenti articoli Eurasia, le ragioni del conflitto; Io sono Occidente; Nazioni e nazionalismo nel XXI secolo; Ucraina il destino del Mondo e Ucraina, comparsi sia su questa testata che sul mio blog ai quali rimando per gli approfondimenti.