Nel suo celebre manuale strategico intitolato L’Arte della Guerra, il generale- filosofo cinese Sun Tzu invitava a non ripetere mai una tattica vittoriosa. La ragione è evidente: esaurito l’effetto sorpresa della “prima volta”, subentra nel nemico la consapevolezza di cosa sia successo. Quindi diventa probabile metterà in atto delle contromosse. Facile si rivelino efficaci.
Sun Tzu è vissuto a cavallo tra VI e V secolo a.C., ma la sua opinione, anche se conosciuta in Occidente molto più tardi, è stata condivisa, in forma indipendente, da uno stuolo di pensatori strategici e messa in pratica da un numero ancora più elevato di generali e ammiragli su un’infinità di campi di battaglia, terrestri e marittimi.
L’altrettanto famoso repetite iuvant, dunque, che dobbiamo ai nostri progenitori romani dev’essere confinato alla fase dell’addestramento: vale per l’apprendimento, non certo per la decisione di fronte ai problemi. In ogni settore. A cominciare dalla politica.
Quando, però, si è avuto un rapido e completo successo diventa difficile sottrarsi al richiamo di continuare a utilizzare le tattiche già sperimentate. Debolezza tutta umana. Cambiare strada risulta sempre difficile.
Ed è a tale lato psicologico che si deve far ricorso per tentare di spiegare quanto, altrimenti, oggi risulta incomprensibile nell’azione politica di Matteo Renzi. Se ha commesso un primo clamoroso errore nel giocarsi presente e futuro del governo, e suo personale, nella partita referendaria, pare avviato sulla medesima strada in materia di congresso del Partito Democratico/elezioni politiche. Come mai?
Non c’è dubbio che la sua ascesa sia stata caratterizzata da una serie di azzardi coronati tutti da imprevisti e imprevedibili successi. È giunto a palazzo Chigi sull’onda emotiva della rottamazione, promettendo che avrebbe rivoltato da cima a fondo l’invecchiata struttura dello stato, spazzando via ogni ostacolo assieme a quanti si fossero ostinati a difendere privilegi e rendite di posizione. Benissimo. Tra il dire e il fare, però, si frappone la realtà. In questo caso sotto forma non solo di oggettivi vincoli di natura economica e sociale ma, non meno importanti, di compromessi inevitabili quando si operi in una democrazia. In particolare se non si dispone di una vera e coesa maggioranza parlamentare.
Il successo ottenuto sino alla sconfitta referendaria l’ha dunque spinto a rischiare il tutto per tutto. Il 4 dicembre scorso, però, ha perso. Credo non se l’aspettasse per niente. Almeno a livello del suo io profondo. Ha tentato di resistere, poi ha dovuto giocoforza mollare almeno il governo. Da quel momento, però, il suo unico pensiero è stato di riconquistare le posizioni perdute. Era ben conscio, del resto, che nessuno come un rottamatore rischi di scomparire se fallisce, anche una volta sola.
Cos’ha fatto, allora? Visti i risultati ottenuti in precedenza ha pensato di ripetere le tattiche allora vittoriose. Oggi, però, sono mutati tempi e, in molto casi, avversari. Soprattutto, la sua azione non ha più il fascino della novità e la freschezza del successo. Il quale, è noto, sviluppa di per sé consenso.
Si spiega così l’ostinazione nel voler imporre a ogni costo un congresso anticipato. Anche al prezzo di una scissione che, in realtà, nessuno vuole. L’idea di fondo, congresso subito per ricompattare il partito e presentarsi uniti a elezioni anticipate, forse avrebbe potuto funzionare: se ne fosse stato alfiere qualcuno libero dal fardello di una pesante e fresca batosta. A volte bisogna saper aspettare, coltivando la pazienza.
Matteo Renzi, però, sembra oggi prigioniero del suo stesso personaggio. Nato rottamatore e in questa veste riuscito a salire di gran carriera là dove, forse, non pensava neppure di arrivare, si trova incapace di ridisegnare sé stesso e il proprio ruolo politico. Si agita di continuo e corre, corre ma rischia così di imitare quanti, andando di fretta, in realtà non approdano mai da nessuna parte.
Inevitabile nemesi del destino ladrone?
Può darsi, il fato è un tipo curioso e gli dèi, si sa, amano accecare chi vogliono perdere. Non per nulla nell’antica Grecia si sosteneva che la fortuna fosse la migliore qualità di un politico. Quando succeda, come il 4 dicembre, che questa non si schieri dalla propria parte, diventa necessario fermarsi e riflettere. A volte anche solo per aspettare. Il quadro si chiarisca oppure nascano nuove idee capaci di produrre tattiche rinnovate. Addirittura, di far cambiare strategia.
Matteo Renzi sta sbagliando. Di nuovo. Peccato, perché aveva saputo interpretare e dare voce all’ansia di cambiamento che ancora adesso percorre il paese. Chissà se saprà fermarsi in tempo, questa volta. Sarebbe un gran vantaggio. Per lui, senz’altro, per quanti l’hanno sostenuto e vedono ancora in lui un portabandiera del nuovo, non c’è dubbio, ma anche per l’Italia nel suo complesso: stiamo attenti, perché siamo troppo preoccupati di sventrare tutto “come una scatoletta di tonno”, ma la vera rivoluzione sarebbe cominciare a far funzionare quanto esiste. E non ha mai girato come avrebbe dovuto.
Non credete?