Salvare il Pianeta: rappresenta la costante geopolitica di lungo periodo di maggiore rilevanza e urgenza, oggi. Perché non esiste Homo sapiens senza Terra e, di conseguenza, neppure Stati intesi come la più perfezionata forma di organizzazione sociale mai sperimentata. Finora. Vero è che la sopravvivenza di singoli e specie dovrebbe essere l’istinto di base di ogni Sapiens. Di conseguenza, degli Stati. Lo è altrettanto, però, che questi ultimi tendano a comportarsi come altrettanti Frankestein: assemblati così come i fatti storici, somma algebrica di caso, necessità e volontà e pertanto immersi nella nebbia della complessità, hanno determinato e accesi dalla scintilla dell’esistenza, si animano di vita propria. Il punto è che si comportano come virus: si replicano senza soste, insinuandosi nel corpo del Pianeta, invadendolo e assoggettandone qualunque porzione: di terra, di mare, di cielo, persino di spazio. Non esiste angolo della Sfera Rotante che non sia inquadrato o almeno rivendicato da qualche Stato.
Eppure, benché necessaria sia al Sapiens, in quanto specie animale, che agli Stati, quale forma di aggregazione sociale del primo, la continuità della Terra, almeno nelle forme note, è ormai in pericolo. Siamo giunti a un punto discriminante. Se è abbastanza ovvio, infatti, che l’insipienza del Sapiens non sia in grado di distruggere effettivamente la Terra, lo è però che possa modificarne l’ambiente in maniera tale da produrre mutazioni radicali: il più delle volte letali per la sopravvivenza stessa della specie e delle sue strutture di organizzazione sociale. Possibile non se ne renda conto?
Che sappia è certo: impossibile ignorare la quantità di informazioni verificate in materia. I circa otto miliardi di Sapiens in circolazione lo hanno ben presente. Almeno la maggior parte di essi e, in particolare, coloro che prendono le decisioni. Come mai, allora, non si riesce a cambiare direzione? La risposta è perfino banale: la responsabilità è nella natura ambivalente del Sapiens e di conseguenza della sua creatura, la forma-Stato. Da un lato instancabile e insaziabile predatrice, specie dei simili, dall’altro altruista socializzante, capace di modalità di collaborazione e cooperazione formidabili. Una specie di Giano bifronte, dove la prima faccia è l’Unico di Max Stirner e il suo epigono, il Superuomo di Nietzsche, e l’altra il protagonista del Mutuo Appoggio di Kropotkin. Forse aveva ragione Eraclito di Efeso, quando parlava, nei pochi frammenti pervenutici, di un Cosmo in perenne conflitto dove l’Armonia viene raggiunta in modo misterioso attraverso la Guerra di Contrari accesa dall’improvviso balenare del fulmine.
Finora è andata così, effettivamente. Dobbiamo, quindi, rassegnarci e attendere l’esito di lotte senza fine? Esiste un’altra possibilità, che non sia affidata all’ipotetico e utopico affermarsi di una chiara ed esclusiva tendenza al Mutuo Appoggio? A ben guardare, se il conflitto è sempre all’opera, lo è anche il suo opposto. Può darsi esista una soluzione al nostro dilemma. Certo, bisogna prima spazzare via qualche pregiudizio, inteso nel senso letterale del termine e cioè di giudizio emesso prima di concreta verifica.
Innanzitutto liberiamoci dal concetto di popolo, inteso quale comunità con la tendenza a perpetuarsi di soggetti affini per nascita, che condividono cultura e civiltà. A partire dalla lingua. La Storia ci fornisce una risposta chiara in materia e la chiama etno-genesi: i popoli non pre-esistono, ma si formano sulla base delle decisioni di individui che, per libera scelta, si associano, prendendo a fondamento alcune idee-base e si dotano di una lingua, per convenzione comune. Il più delle volte, invece di adottare qualcosa di esistente, ne forgiano una di nuova: l’italiano, lo spagnolo, il francese, il tedesco, l’inglese, il cinese-mandarino e così via, oggi considerate lingue dei rispettivi stati-nazione, e non solo, lo diventano in un preciso momento, spesso nel corso del secolo XIX quando vengono normate, perché così la politica del tempo imponeva. Tramite i suoi atti e la sua scuola pubblica uniformata. Allo stesso modo, i popoli possono dissolversi, dando vita ad altre aggregazioni in base ad aspirazioni e bisogni dei componenti oppure casualità. Succede che si spostino, cioè migrino, talvolta che risorgano. Oppure gemmino, sparpagliandosi.
Il secondo è l’idea di culla ancestrale. I popoli non hanno un luogo di origine e neppure un qualunque angolo della Terra al quale siano intimamente legati. Vivono dove capita, secondo opportunità e necessità. I Miti delle origini hanno valore in quanto servono per cementare la nuova nazione. Gli esempi in materia sono molti, ma senza andare tanto distanti, basti pensare agli Stati Uniti, con il mito del destino manifesto, il loro; alla multietnica Russia con l’invenzione del Russkij Mir o Mondo Russo, che slavizza chiunque e ovunque; all’altrettanto male assemblata Cina e alla sua pretesa di incarnare, democratura perfetta oggi e Celeste Impero ieri, la migliore forma di governo possibile.
Popolo e culla ancestrale, conditi o meno da destino manifesto, Mir e Celeste Impero, nutrono il terzo dei pre-giudizi di cui dobbiamo disfarci e cioè quello di diritto naturale. Non esiste niente di tutto ciò, l’unico diritto esistente è sempre e soltanto quello positivo, cioè per usare un concetto caro a Kelsen, ma da lui mutuato da Hobbes e Marsilio da Padova, la sistemazione in termini giuridici di quanto determinato dai fatti storici, cioè in sostanza da caso, necessità e forza usata con disinvolta noncuranza. L’aveva detto con chiarezza Stirner, d’altronde: il diritto è il mio diritto, la giustizia è la mia giustizia, il resto sono chiacchiere o imbonimento di giullari. E cosa si deve intendere per forza? La capacità di individui e gruppi, a volte intere comunità, di definire i propri obiettivi e raggiungerli. Pagando e facendo pagare il prezzo necessario.
Giusto per non rimanere nel vago: il diritto dell’Ucraina a esistere è direttamente proporzionale alla sua volontà di non farsi annientare, al talento e al sangue che gli ucraini sono disposti a spendere nella guerra in corso. La quale è il fatto storico che segna la nascita della nazione ucraina così come si verrà formando nel dopo-guerra. Se Kiev sopravviverà, mantenendo la propria indipendenza. In caso contrario diventerà una costola del Russkij Mir e la sua stessa lingua tenderà a sparire. Il diritto ucraino, quindi, discende dal caso dell’aggressione russa, dalla necessità di difendersi per non scomparire, dalla forza dispiegabile per raggiungere l’obiettivo. Da nient’altro. Quanto, poi, quest’ultima sia aiutata dal flusso di denaro, mezzi e informazioni, e anche qualcos’altro, da USA ed Europa è un dettaglio: dimostra solo l’abilità di Kiev di spendersi come avamposto dell’Occidente e il cinismo di questi nel sfruttarla come tale.
Quanto detto per i rapporti internazionali si può allargare tranquillamente a quelli interni a ciascuno stato. La sovranità popolare? Al pari di quella nazionale è chimera, fantasma evanescente. Esiste la mia sovranità non quella di un popolo che, come abbiamo appena visto, è singolare creatura storica del quale faccio parte solo fino a quando lo decido. Anche all’interno dello Stato-Frankestein è la realtà dei rapporti tra singoli e gruppi a produrre i diritti. Le recenti questioni sorte negli USA in materia di diritto prevalente degli Stati nei confronti dell’Unione per questioni quali l’aborto, i diritti civili, la politica ambientale, giusto per fare tre esempi d’attualità, ne sono la prova: il diritto diventa tale quando qualcuno è abbastanza forte da imporlo. Su una scala più ridotta, accade lo stesso in Italia con la cosiddetta autonomia differenziata regionale: il Sud-Tyrol l’ha conquistata con le disobbedienza, le bombe e il supporto esterno del mondo germanico, non certo perché le sia stata graziosamente riconosciuta a bocce ferme. Evitare secessioni o assorbimenti in altre realtà statuali ha prodotto quelle aostane, friulane e siciliane. Infatti, Veneto e Lombardia non riescono a raggiungerla.
Giunti a questo punto, è venuto il momento di tirare qualche somma. Ci soccorre la Ragione per produrre la Nuova Alleanza di cui abbiamo bisogno. Se reali sono solo gli individui e le modalità con cui questi si associano per esprimersi e affermarsi, ne deriva che per salvare il Pianeta dalla corsa autodistruttiva, cui l’alterigia cieca tipica del Sapiens e della forma-Stato lo conducono, serve un cambio di prospettiva. Proviamo, tanto per cominciare, a sostituire l’idea fallace di diritto con quella ben più pregnante di interesse: è interesse di chiunque bere acqua pulita, mangiare in maniera sana e in quantità adeguata, respirare aria non inquinata, potersi curare e istruire, godere del tempo e degli amici, dare concretezza alla propria creatività e vivere in un Pianeta dove libertà e felicità siano patrimonio comune e non riservato a pochi. Vale per ogni individuo e per tutte le aggregazioni sociali possibili, quindi pure per gli Stati.
È evidente, come primo passo, che bisogna frenare l’indiscriminata crescita numerica dei Sapiens: Malthus aveva ragione e in realtà non c’è rivoluzione scientifica e tecnologica che possa ovviare al limite intrinseco di risorse naturali della Terra. Quanto accadrà è stato anticipato dal celebre esperimento Universo 25 di Calhoun, il sovraffollamento porta all’estinzione della comunità anche in presenza di risorse teoricamente sufficienti e in assenza di predatori e/o avversità esogene. E topi e ratti da lui utilizzati sono in genere più razionali e meno aggressivi dei Sapiens. Oltre al fatto che le avversità, a cominciare da quelle climatiche e sanitarie, le sperimentiamo ogni giorno.
Cambiata la prospettiva culturale e nell’attesa messianica diventi patrimonio universale, dobbiamo affrontare con coraggio la traversata nel deserto del tempo presente. L’unico strumento disponibile subito, da affiancare alla diffusione filosofica della Nuova Alleanza, è un qualche grado di coercizione. Ciò riguarda in particolare gli Stati, organismi onnipotenti dimentichi di essere in origine pura forma aggregativa di individui che hanno finito per ridurre al rango di schiavi. La nozione di interesse nazionale a loro così cara va inserita in un contesto sovrannazionale o internazionale, se si preferisce. Tutti gli stati perseguono per natura, se così si può dire, il cosiddetto interesse nazionale, sta di fatto che questo molte volte, la maggioranza oso dire, entra in collisione con l’interesse degli associati o cittadini o sudditi che siano. Tornando all’esempio ucraino, è ben difficile sostenere sia interesse dei Russi, chiamiamo così il complesso di quanti abbiano il passaporto della Federazione, morire nel fango e nella polvere delle trincee del Donbas. Non lo è nemmeno dei cosiddetti donbassari ovvero i cittadini di quelle regioni di lingua russa o ucraina. Siamo in presenza di un conflitto di interessi: da un lato quelli di singoli e comunità variamente articolate sul territorio e dall’altro quello dei due Stati-nazione, o pretesi come tali, effettivamente in conflitto. Come se ne esce?

La riluttanza dei singoli Stati a cedere al Congresso i relativi poteri per il Governo Federale, la loro gelosia irrazionale verso quell’organo e l’uno dell’altro e l’inclinazione che sembra pervadere ciascuno di essi a essere onniscienti e onnipotenti al loro interno, sarà se non ci sarà un cambiamento nel sistema, la nostra rovina come Nazione.

George Washington, 18 gennaio 1784.

Spostiamo l’acuta osservazione di uno dei Padri Fondatori degli USA all’intero Pianeta, dagli Stati dell’Unione a quelli presenti all’ONU e abbiamo il nocciolo del problema. Visto che resta di attualità e rischia ancora oggi di portare quell’Unione alla dissoluzione, mentre l’osservazione di partenza è il pericolo che grava sull’esistenza stessa non di un singolo organismo politico, bensì della sopravvivenza stessa della Terra e quindi del Sapiens, vediamo quali correttivi vengano laggiù utilizzati oggi per evitare la catastrofe.
Negli USA lo chiamano federalismo coercitivo. Da contrapporre al tradizionale federalismo cooperativo. Agisce in questo modo. Sfrutta in maniera selettiva l’erogazione dei finanziamenti federali, arrivando al punto di sequestrare per intero tali risorse, per indurre gli Stati dell’Unione a uniformarsi alle direttive politiche centrali e a non divergere in misura eccessiva da queste. In sostanza, attua una sorta di ricatto punitivo. È quanto si cerca di fare con il sistema delle sanzioni internazionali, per esempio ieri contro la Repubblica Islamica dell’Iran o quella Popolare Democratica di Corea e oggi nei confronti della Federazione Russa, con la differenza che non vi sono falle nella rete, perché le Agenzie Federali USA, pur con qualche differenza e distorsione, tendenzialmente mettono in atto le disposizioni del governo centrale. Al momento pare funzionare.
Premessa necessaria, però, per il funzionamento di tale architettura è la cessione di almeno parte della sovranità a un’entità sovrastatale e il riconoscimento della legittimità degli atti che da questa provengano grazie a un’investitura generale attraverso l’unico meccanismo finora inventato: elezioni il più possibile libere e universali.
Non è certo un caso che l’offensiva delle democrature contro l’Occidente sia partita cercando di manipolare l’esito delle competizioni elettorali nei vari paesi. L’idea non era tanto quella di far scegliere da votanti poco attenti candidati propri, quanto far passare l’idea che l’intero processo fosse truccato alla base. Vale a dire il mantra degli autoritari Trump e Bolsonaro, per esempio. Cioè delegittimare le istituzioni. Vale anche in Europa. Il problema dell’Unione Europea, allo stato attuale, è proprio nella scarsa rappresentatività di chi nominalmente la rappresenta. Da qui la riluttanza a cedere sovranità da parte degli Stati, che possono contare sull’appoggio delle rispettive basi popolari che diffidano, per l’identico motivo, di quanti si trovano tra Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Sembrerebbe un problema senza soluzione. Invece questa esiste.
Se il federalismo coercitivo o punitivo può essere la meta, il mezzo è una democrazia estesa e legittimata perché realmente rappresentativa. È evidente che se la UE ancora non lo è, gli USA dubitano di esserlo per molti motivi, meno di tutti lo sia quell’inutile e costoso carrozzone chiamato ONU. Eppure solo questa sarebbe la dimensione non solo utile, ma addirittura indispensabile per poter davvero esercitare il federalismo coercitivo o punitivo su scala planetaria. Cioè per impedire che la deriva degli Stati membri, tendenzialmente separatisti e aggressivi gli uni verso gli altri come la Storia insegna, porti all’altrimenti inevitabile catastrofe prossima ventura. Potremmo cominciare, giusto per muovere un passo e dare l’esempio, dall’avere più Europa. Sarebbe una Rivoluzione capace di tracciare un solco. Certo, bisogna trovare il modo per permettere agli individui di partecipare ed esprimersi in prima persona, senza inganni né truffe, in modo che quanti poi dovranno esercitare tale forma di coercizione siano pienamente legittimati.
Follia di un veneziano a metà gennaio 2023? A ben vedere il dilemma aveva travagliato anche Nestor Machno, rivoluzionario anarchico ucraino degli anni Venti del Novecento, che alla fine della sua esperienza, ormai esule a Parigi, diede una risposta assai simile: vedere per credere la Piattaforma Organizzativa del 1923, figlia diretta della machnovščina imitata poi nell’Aragona e nella Catalogna liberate durante la Guerra Civile Spagnola:

(…) durante la Rivoluzione spagnola saranno infatti realizzati esperimenti misti che includeranno l’autogestione, la decentralizzazione, la pianificazione, lo scambio, il baratto e persino i rapporti di mercato (…)

Alexander v. Shubin, Bandiera Nera sull’Ucraina, trad. it. Sara Baglivi, Milano, Eleuthera, 2012, p. 190.

Insomma, intanto pensiamoci, poi bisognerà cominciare a sperimentare: ricordiamoci come sono finiti i topi e i ratti di Universo 25.