«Oltre la laurea: dal digitale al green, ecco i master per trovare lavoro». Titolo di un articolo del Sole24Ore, edizione digitale del 13 settembre 2022. L’argomento trattato è palese: nell’attuale mondo ipercompetitivo, per un giovane che si affacci sul mercato del lavoro il livello di conoscenze conseguito fino al raggiungimento di una laurea è considerato insufficiente. Giusto? Sbagliato? Ricordavo qualche tempo fa che un importante industriale veneto, Enrico Carraro dell’omonima azienda metalmeccanica padovana, faceva presente di essere costretto ad assumere laureati in ingegneria per ricoprire posizioni in precedenza occupate da semplici periti industriali. Forse un ingegnere di oggi ne sa quanto un semplice perito di ieri? Carraro lo lasciava intendere, però è anche vero che la complessità dei processi produttivi è cresciuta al punto da rendere necessarie figure professionali più sofisticate.

Si tratta di una banale constatazione, estensibile a diversi ambiti. Direi a tutti. A un bigliettaio di Vela a Venezia, per esempio, viene richiesto un minimo livello di espressione in diverse lingue, visto che l’utenza è poliglotta e spesso ha difficoltà a utilizzare l’italiano. Ovviamente è necessario si destreggi nella realtà digitale. Un avvocato, invece, deve sapersi muovere almeno a livello europeo, tra norme e regolamenti tante volte solo recepiti dalla legislazione nazionale. Non parliamo di medici, personale sanitario di vario tipo, architetti e ingegneri, tutti indistintamente “condannati” all’aggiornamento continuo. Sono solo esempi. La conclusione è che all’aspirante a un posto di lavoro si richiedono abilità e informazioni di base maggiori del passato e gli si fa presente l’obbligo, non l’opportunità si badi bene, di tenersi sempre al corrente di quanto di nuovo emerga nel Mondo. In qualche modo, sia perché a dispetto delle critiche la scuola compie quotidiani sforzi in tal senso e sia per buona volontà dei singoli, i giovani italiani quanto meno provano ad adeguarsi.

È giusto, d’altronde: il Mondo cambia a una velocità vertiginosa e incalzate da tale ritmo le nuove generazioni provano a stare al passo. Una volta assunti, la parola d’ordine con la quale si dovranno confrontare è “merito”. Gliela sbatteranno in faccia ogni volta che aspireranno a un miglioramento, un semplice cambiamento, per giustificare i rifiuti. I quali saranno tanti. Merito composto da quantità e qualità del lavoro svolto, ma anche e in misura crescente d’incremento delle competenze grazie ad aggiornamento e formazione continui. Indispensabili per non restare indietro nella scala delle conoscenze e quindi rimanere esclusi.

Tutto ciò investe, nel mondo reale, qualunque settore dell’attività umana. Un amico storico, di recente, ha risposto, a chi lo criticava per aver assunto posizioni diverse rispetto a quelle sostenute in un volume pubblicato anni fa, di aver impiegato il tempo a studiare, approfondire e confrontare. Risultato, aveva cambiato opinione. Succede. Anche dove, se non altro per lo spazio cronologico intercorso, sembrerebbe che i dati essenziali dovrebbero essere acquisiti. Nei giorni scorsi sono stato contattato da un ricercatore stupito perché, all’Archivio di Stato di Venezia, si trovano ancora buste di documenti del 1668 mai aperte. Gli ho risposto di non meravigliarsi, gli Archivi restano ancora in gran parte inesplorati: chissà quante sorprese contengono! Insomma, non esiste dimensione lavorativa nella quale non siano indispensabili solida preparazione di base e disponibilità all’aggiornamento permanente. Tranne una: la politica.

Cinque anni fa un’ondata populista, «apriamo le istituzioni come scatolette di tonno!», si è abbattuta sull’Italia. Non è successo solo qui, ma fermiamoci ai guai di casa nostra. Il Parlamento si è riempito di una folla di scappati di casa, spesso senz’altra qualità rispetto a quella di essere disoccupati. Una sciagurata legge elettorale e la rabbia anti-casta dei votanti li ha sospinti al punto di occupare i seggi di Senato e Camera, in molti casi in assenza dei requisiti minimi per poter partecipare a un qualsiasi concorso pubblico. Anche modesto. I risultati sono presto diventati evidenti. Per fortuna, le istituzioni, rette da personale con ben altra preparazione ed esperienza, si sono divorate i maldestri tentativi di scardinarle, al punto che la legislatura iniziata con un primo ministro uscito dal nulla, Giuseppe Conte, si è conclusa, male, con un altro primo ministro dal curriculum di studi e professionale ineguagliato in Italia, Draghi. Come mai? Perché la barca dello Stato si avviava al naufragio e il Presidente della Repubblica è riuscito nel miracolo, per salvarla, di ricorrere all’opzione migliore.

Sul piano delle competenze e delle esperienze tra Conte e Draghi la differenza è tale da non ammettere discussione. Infatti, l’Italia si è rimessa in piedi e ha cominciato a camminare. Purtroppo la classe politica di matrice populista, estesa a più partiti e movimenti, è riuscita nell’intento di rovesciare Draghi e il suo governo proprio nel momento in cui la Guerra Ucraina ha mostrato la sua natura di confronto geopolitico su scala mondiale. In cui l’Italia è coinvolta, se non altro perché membro attivo di una delle due alleanze in campo. Peccato: l’abile guida di Draghi stava facendo crescere ogni indicatore numerico, dal PIL agli occupati, dalla produzione alle esportazioni, dalle entrate fiscali ai saldi commerciali. Tutto buttato al vento. Le elezioni prossime venture, però, potrebbero dimostrare che gli elettori hanno fatto tesoro dell’errore madornale compiuto in precedenza e, quindi, premiare serietà e talento anche nell’urna. O no?

A quanto pare, la competizione sarà trionfalmente vinta dalla Destra, guidata, visto il favore di cui gode almeno nei sondaggi, da Fratelli d’Italia e quindi da Giorgia Meloni. Sarebbe la prima donna a Palazzo Chigi. Un risultato notevole, niente da dire. Non per caso, Meloni batte ossessivamente sul tasto, sperando di attirare quote importanti di voto femminile e questo anche per via degli indecisi, i quali non mostrano preferenze e al momento rappresentano ben il 40% dell’intero corpo elettorale. Una cifra capace di capovolgere qualunque previsione, favorevole o sfavorevole che sia. Basta il fatto sia donna?

È abbastanza clamoroso la novità venga da una Destra notoriamente tradizionalista in materia. È anche vero che l’Italia entrerebbe nel numero dei paesi in cui sono state le forze conservatrici a fare da battistrada, dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher alla Germania di Angela Merkel. Tuttavia, appare sorprendente che una personalità come Giorgia Meloni ancora di recente, quindi non quando aveva diciannove anni o giù di lì, abbia rivendicato con orgoglio, in quanto imprescindibile elemento identitario, la presenza della bara da cui si alza la Fiamma Tricolore nella bandiera del proprio partito. Si tratta, è vero, di un’eredità di Alleanza Nazionale, formazione da cui nasce Fratelli d’Italia, ma è la stessa del predecessore di questa e cioè il Movimento Sociale Italiano. Per i distratti, ricordo che la bara in questione è quella di Benito Mussolini. Per Giorgia Meloni, dunque, il richiamo al fascismo è un incontestabile dato culturale di fondo. Mi verrebbe da ricordare che il Duce le donne le voleva rigorosamente a casa, ad aspettare il marito e a far figli per la Patria. Eppure doveva la sua ascesa al favore e all’aiuto concreto di più di una di loro, da Angela Balabanoff alla veneziana Margherita Sarfatti. Entrambe di religione ebraica: quanto beffarda e ironica sa essere la Storia! Sorvoliamo su tali dettagli, però.

Non si può, però, far finta di niente su altri particolari della candidatura di Giorgia Meloni e così mi ricollego all’inizio del discorso. Benissimo sia donna, trovo personalmente indifferente si proclami a ogni secondo cristiana, ma quello che lascia perplessi è il suo curriculum personale. Vale la pena focalizzarlo, visto che succederà a Draghi, a quanto pare. Diplomata con 60/60 in un allora Istituto Tecnico Professionale di Stato, l’Amerigo Vespucci di Roma, sostiene di aver conseguito la maturità linguistica. Qualcuno ha osservato che a partire dal 1973/74 e fino alla riforma Gelmini del 2010 a rilasciare tale maturità erano abilitati solo i Licei linguistici, mentre dagli ITP uscivano solo “periti”. Non è granché importante, tuttavia, sono sfumature. Non pare si sia mai iscritta all’Università, in compenso sempre nel 1996, anno della maturità e in cui si proclamava grande ammiratrice di Mussolini, entra in Azione Studentesca. Da qui comincia una carriera politica tutta a destra. Consigliere provinciale a Roma con Alleanza Nazionale, presidente di Azione Giovani, movimento giovanile della stessa formazione politica, nel 2006 diventa deputato e vicepresidente della Camera. Tra il 2008 e il 2011 è ministro della gioventù nell’ultimo governo Berlusconi, poi rieletta altre due volte alla Camera, nel 2006 supera gli esami per giornalista professionista. Lavoro mai esercitato, per altro, perché le sue uniche esperienze sono state giovanili al Piper di Roma, nota discoteca della Capitale, e come baby-sitter. Nel 2014 diventa presidente di Fratelli d’Italia, partito che ha contribuito a fondare, nel 2016 viene eletta consigliera comunale, sempre a Roma. È tutto.

Vediamo, in estrema sintesi, quello del predecessore, sempre che le cose vadano in questo modo, Mario Draghi: diplomato al liceo classico, laurea in economia a Roma La Sapienza,  dottore di ricerca in economia al M.I.T. di Boston, professore alle università di Trento, Padova, Ca’ Foscari di Venezia e  di Firenze, direttore generale del ministero del Tesoro,  dirigente alla Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia (carica che lo fa entrare nel Forum poi Consiglio per la stabilità finanziaria e membro della BCE), membro del consiglio d’amministrazione della BRI, direttore esecutivo della Banca Mondiale e della Banca Asiatica di Sviluppo. Dal 2011 al 2019 è presidente della Banca Centrale Europea (BCE). In mezzo, si segnalano passaggi all’IRI e alla Banca Nazionale del Lavoro… ma qui mi fermo perché il ragionamento mi sembra abbastanza sviluppato.

Davvero Giorgia Meloni può ragionevolmente sostituire Mario Draghi? Per lei valgono, tra l’altro, il discorso già fatto su quanti, proiettati dal voto sui seggi del Parlamento, non dispongono nemmeno dei requisiti minimi per almeno partecipare ai concorsi, che si tengono per assumere il personale in servizio nei due rami: un documentarista della Camera dev’essere almeno laureato, uno del Senato anche a partire da un certo voto. Questo a prescindere dall’osservazione che nel corso della sua, ormai abbastanza lunga, vita politica Giorgia Meloni non ha mi amministrato nemmeno un condominio. Le mettiamo in mano la guida della settima potenza industriale del Pianeta, uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea, la facciamo decidere cosa si debba gestire un debito pubblico arrivato a quota 2.770 miliardi di euro, vale a dire il 165% ca. del PIL nazionale? Il meglio che possiamo sperare è che si faccia telecomandare da quei funzionari selezionati con concorsi severi e costretti di continuo ad aggiornarsi ai quali si affida la macchina dello Stato. Certo, mi chiedo a cosa serva votarla allora. Se è importante sia donna, proviamo a guardarci in giro: ce ne sono tante di italiane preparate e di talento sparse in giro per il Mondo, di sicuro dotate di conoscenze superiori e con maggiore esperienza internazionale. Una volta tanto, cerchiamo d’imparare dagli errori compiuti: saper urlare dentro un microfono un po’ di banalità a un comizio non è qualità sufficiente per essere un buon politico, men che meno uno statista. Salvini insegna. Occorrono cultura di base, aggiornamento ed esperienze a vasto raggio. Magari aver dimostrato qualcosa. In gioco c’è l’Italia.