Oggi, 2 aprile 2022, vediamo ancora scorrere sui nostri schermi domestici le immagini della guerra in Ucraina. Sono passate più di cinque settimane da quando, il 24 febbraio scorso, il presidente russo Putin ha lanciato l’«operazione militare speciale» finalizzata a «denazificare» Kiev. Tradotto: a sostituirne il troppo indipendente e filo-occidentale governo, che vede al vertice dello stato l’ex-comico Volodymyr Zelen’skj, con un altro, dichiaratamente filo-russo, probabilmente con presidente l’affidabile, per Mosca s’intende, Viktor Yanukovich, già presidente eletto dell’Ucraina tra il 2010 e il 2014 quando l’ormai celebre rivolta popolare nota come Jevromajdan lo costrinse a lasciare l’incarico. Cinque settimane e non cinque giorni, limite che la maggioranza degli osservatori attribuiva alle possibilità di resistenza ucraine. Le quali hanno colto di sorpresa un po’ tutti. Davvero?

Di sicuro noi osservatori comuni e poco addentro alle vicende militari, molto meno quanti hanno seguito in questi anni con attenzione e buone informazioni quanto si stava preparando nelle pianure al limite estremo dell’Europa. Perché una cosa è certa, tutto erano gli ucraini meno che impreparati. Sono stati colti di sorpresa nel 2014, quando la reazione del corposo partito filo-russo presente nel paese e ben supportato da Mosca, ha prodotto la secessione del Donbas orientale, oggi autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, e l’occupazione militare diretta della Crimea da parte delle Forze Armate russe. Allora fu facile per i paramilitari locali e le Forze Speciali della Federazione avere la meglio su deboli, male equipaggiate, peggio dirette e demotivate unità regolari ucraine. Nel 2014 solo l’intervento rapido di altri paramilitari, volontari ucraini, tra cui si distinsero in modo particolari i famosi-famigerati miliziani del Battaglione poi Reggimento infine Distaccamento Autonomo Azov, evitò il collasso del Donbas rimasto fedele a Kiev. Riconquistarono armi in pugno anche Mariupol, togliendola ai filo-russi. Sono gli stessi che avevano già militato accanto ai ceceni a Grozny e dintorni durante la Seconda Guerra Cecena: durata qualcosa come dieci anni tra il 1999 e il 2009 e conclusa con la distruzione integrale della capitale indipendentista, Grozny. Ricordo che il primo conflitto, 1994-1996, si era concluso con la vittoria dei separatisti. Niente è semplice e chiaro quando ci si addentri nei dettagli di questa vicenda.

Infatti, dal 2014 a oggi gli ucraini sono stati addestrati e riarmati in particolare da americani e inglesi: con ottimi risultati, a quanto pare. Di base ci devono essere soldati motivati e ben istruiti, capaci di utilizzare le armi che vengono fornite e determinati a mettere in gioco le loro vite. Gli equipaggiamenti, da soli, non bastano, specie quando si parli di quelli altamente sofisticati di produzione occidentale. Bisogna saperli usare. Il che richiede adeguata preparazione. Nonché resistenza alla tensione, di cui la paura di morire è il primo e non minore aspetto. Da qui l’efficacia delle forniture arrivate da Occidente: le quali, però, con ogni probabilità erano cominciate ben prima del 24 febbraio. Non è l’unico aspetto sviluppato in anticipo rispetto all’attacco. Come il caso del mancato dominio dell’aria russo dimostra.

Abbastanza equilibrati dal punto di vista delle forze di terra, infatti, i due avversari mostravano a bocce ferme evidenti squilibri in campo navale e aereospaziale. Anche in altri due domini, però, la preponderanza russa pareva assoluta: cyber e intelligence. Il combinato disposto di tutto ciò avrebbe dovuto garantire il rapido e poco doloroso successo dell’offensiva. Non è andata così. Come mai? Perché, distrutte le deboli infrastrutture ucraine di partenza, forze aeree e antiaeree di Kiev, nonché difese costiere e reparti di terra hanno ricevuto un robusto aiuto da parte di chi queste capacità le ha e al massimo livello: solo gli USA e la Nato dispongono di mezzi, uomini e dottrine d’impiego in grado di confrontarsi con i russi in ogni campo. Oggi possiamo dire che si sono pure dimostrati di gran lunga superiori. Così è successo che gli ucraini sin dalla prima ora hanno saputo in tempo reale cosa stavano facendo e preparando i russi, venendo quindi diretti “a colpo sicuro” là dove potevano fare più male. Gli aerei della VKS non hanno imposto il loro controllo dell’aria e devono, invece, restarsene piuttosto distanti dal campo di battaglia. Quando intervengono, lo fanno di fretta, subendo perdite gravi e utilizzano per lo più armi “stupide”. Quelle “intelligenti”, dette così solo perché più precise ed efficaci, le hanno finite subito o funzionano male. Anche i lanci del famoso ipersonico Kinzhal sembrano più che altro atti di propaganda. Gli elicotteri, poi, sono stati letteralmente spazzati via. Le navi, le hanno bloccate i campi minati: per questo i russi non sbarcano a Odessa. Non riescono a passarli. Anche predisporli, però, ha richiesto tempo e freddezza. Tutto ciò a Mosca non l’avevano minimamente messo in conto. Lo stanno pagando caro.

I russi sono rimasti sorpresi anche da un altro elemento: la volontà di resistenza della popolazione. Stiamo parlando di intere comunità come quelle delle città di Kharkiv, in russo Kharkov, Mariupol, Kherson e Odessa dove la componente etnica russa è preponderante o comunque quanto mai numerosa. È l’Ucraina orientale ad avere “tradito” le aspettative del Cremlino. Niente fanciulle esultanti che lanciano fiori sui soldati venuti a liberarle dall’oppressione neonazi, bensì pioggia di piombo contro gli invasori. Un disastro. Anche da questo punto di vista, l’intelligence dunque, i resistenti si sono dimostrati superiori agli attaccanti. Solo che non è propriamente ucraina: ancora una volta, i servizi in azione sono americani e Nato, con particolare riguardo a quelli britannici. Probabilmente non solo.

Il 5 marzo ho scritto che Putin e Xi Jinping questa guerra l’hanno già persa quanto a conseguenze geopolitiche di lungo periodo. Mi riferivo a un’evidenza, mai Mosca avrebbe potuto attaccare senza almeno l’avallo e la promessa di un aiuto in caso di necessità da parte cinese, e a un’emergenza, nel senso di novità imprevista, e cioè l’improvvisa ritrovata compattezza dell’Occidente intero. Nella sua versione più allargata, senza dubbio, ma in particolare del nucleo fondante e cioè euroatlantico. Il 16 marzo ho fatto presente che l’Italia “è” Occidente: per palesi ragioni storico-culturali e per interessi. Chi si atteggia a “neutrale”, credendo di appartenere a un campo intermedio tra i contendenti non capisce. Noi siamo parte in causa, frammento di uno schieramento ben chiaro, soci fondatori della dimensione euroatlantica, Occidente dell’Occidente. Lo siamo per storia e scelte, ma anche perché così siamo percepiti dalla “parte avversa”. E oggi, dopo il manifesto supporto cinese e indiano alla Russia, anche questo campo si va definendo. Perché da una parte si colloca l’Occidente, come appena delimitato, e dall’altro tutti coloro che vogliono scardinarne l’egemonia mondiale. La quale si è ormai stabilita con varie sfumature dal momento in cui Vasco de Gama getta l’ancora nella baia di Calicut, oggi Kozhikode nel Kerala indiano. Era il 20 maggio 1498. Da allora Portogallo, Spagna, Gran Bretagna, USA si sono succeduti nel controllo delle rotte oceaniche che hanno portano anche Francia, Olanda, Germania, Italia ad assumere una posizione egemone nel Pianeta. Trasformando il più piccolo dei continenti, l’Europa, nel dominatore del Mondo. Oggi attraverso lo spin-off americano, gli USA, per lingua, cultura e matrice etnica della maggior parte degli abitanti estensione della Casa Madre.

Gli “altri”, da tradursi Cina in prima istanza ma a cui aggiungere India, Paesi Arabi, persino la Turchia ottomana e l’Iran islamizzato assieme a Pakistan e Corea del Nord, assieme a un corteo di stati clienti, trovano che sia venuto il momento di rovesciare tale stato di cose. Bisogna abbattere l’Occidente. L’ha detto a chiare lettere Xi Jinping. Lo ha persino preceduto Vladimir Putin, la cui Russia rifiuta l’Occidente ed è tornata a inabissarsi nelle pianure eurasiatiche. Lo sussurra l’indiano Narendra Modi. Al movimento hanno anche dato dignità filosofica: il domani è delle demo-crature o democrazie autoritarie, perché più efficienti e meglio in grado di rispondere alle sfide della complessità. Le demo-crazie, invece, sono superate, intrinsecamente e perché espressione di una civiltà decadente. Nuovi popoli premono sul limes che nessuna legione sembra più aver voglia di difendere. L’Impero è in crisi, come dimostra la tragicomica vicenda di Trump negli USA, dove un presidente eletto grazie alle interferenze mediatiche dei nemici del suo paese ha cercato di portare a termine un vero e proprio colpo di stato, pur di non mollare il potere così malamente conquistato. Invece di languire in un carcere federale è ancora lì, sul palcoscenico e rischia pure di riprendersi quanto perduto.

Le analogie con la crisi interna del grande esempio storico che abbiamo sempre sotto gli occhi, l’Impero di Roma, sono impressionanti. Allora, però, quando il limes è crollato è venuta meno un’intera civiltà. E tutto si è consumato nel sangue, nella miseria, nella distruzione. Come accadrebbe anche oggi se questo dovesse ripetersi nelle pianure ucraine.  Guai a noi: la vendetta dei vincitori è sicura. Chi in Occidente si proclama “contro” l’Occidente, per una volta, dovrebbe alzare lo sguardo dall’ombelico delle sterili affermazioni, fatte per certificare solo la propria esistenza, e provare almeno a capire cosa davvero succederebbe. Dispiace, non c’è dubbio, urta la sensibilità di molti, ma non ci devono essere dubbi. La partita non è affatto di risultato garantito e non è per nulla indifferente chi prevarrà. Perché la questione ormai è semplice: o noi o loro. Che futuro volete?