Inutile negarlo, in tutta Europa la questione è “bollente”: il Vecchio Continente è forse vittima di un’invasione? Dopo anni di crisi economica e di esponenziale crescita delle nostre paure in materia di qualità della vita, presente e futura, ci troviamo a fronteggiare una svolta epocale dall’esito quanto mai incerto? Scompariremo come civiltà, forse…

I paragoni scomodati negli ultimi tempi sono così numerosi da non avere alcun bisogno di essere ricordati, nemmeno di sfuggita. La polemica è battente, quotidiana, nutrita senza requie dagli interessi politici di alcune parti politiche. Inutile riportare quali, anche qui. Cosa resta da fare allo storico attento alle convulsioni del tempo attuale? Magari provare a riportare la discussione da un ambito puramente emotivo a uno più razionale e fondato su qualche cifra. Ci provo.

Tra il 1860 e il 1885, quindi nell’arco di 25 anni, emigrarono dalla penisola più di 10 milioni di italiani. Si diressero verso diverse parti del pianeta, comunque alla media di 400.000 partenti all’anno. Dalla sola Italia, sia chiaro. Perché a questi dobbiamo aggiungere quanti se ne andarono dalla Germania… Germania? Certo, perché se il gruppo etnico maggioritario negli USA, per esempio, è oggi rappresentato dai discendenti degli immigrati tedeschi, bisogna pure che i loro progenitori siamo arrivati in un qualche momento. E questo è appunto per la gran parte il famigerato Ottocento. Poi ci sono gli anglofoni, gli iberici sia spagnoli che portoghesi, gli scandinavi e gli olandesi, gli slavi di ogni latitudine, i magiari, i romeni etc.

Nota: mentre germanofoni, anglofoni, iberici sono in ordine quantitativo, gli altri sono indicati senza tenere conto della loro attuale consistenza relativa.

Qua si parla, ovviamente, solo di chi è partito per ragioni “economiche”, senza tenere in alcun conto eventuali motivi di ordine politico e/o religioso. Cercava, cioè, una speranza di migliorare la propria esistenza là dove questa poteva in qualche modo concretizzarsi.

Venendo al secolo successivo, il Novecento, troviamo poi il picco dell’anno 1913: 900.000 gli italiani che se ne vanno. Nei cento anni che intercorrono tra il 1860 e il 1960, le ondate emigratorie si esauriscono solo allora, i nostri concittadini che lasciano la penisola sono attorno ai 23 milioni. Un’altra Italia, visto che il primo censimento del neonato Regno indica proprio in questa cifra il numero di abitanti. Risultato? Impressionante…

Metà circa della popolazione argentina, quote importanti di quelle brasiliana, statunitense, venezuelana, canadese e australiana, solo per ricordare le maggiori, vantano origine italiana. Il procuratore federale brasiliano, che ha appena ingiunto all’ex presidente Lula da Silva di restituire i regali ricevuti durante la sua permanenza in carica, si chiama Moro, come me. Ha un’ascendenza veneta, probabilmente o pugliese, forse. Il taliàn del resto, che non è un dialetto creolo bensì una variante di lingua veneta con grammatica e vocabolario propri, è ufficialmente riconosciuto e largamente parlato in diversi stati e province del Brasile meridionale. È insegnato, scritto, trasmesso alla radio e alla televisione. Ed è stato a lungo proibito e perseguitato per ragioni patriottiche e sovraniste: la lingua del Brasile era il portoghese e pertanto le altre parlate andavano estirpate.

Dopo sono venuti gli anni Settanta del Novecento e qualcosa di nuovo è accaduto. Molti italiani hanno continuato a partire, ma l’hanno fatto spinti non dalla miseria ma dall’aspettativa di migliori opportunità altrove. Sono senza dubbio, pertanto, migranti economici ma di un tipo diverso: il più delle volte ben istruiti, giovani e motivati hanno cercato spazi di gratificazione personale preclusi in patria. Qualche volta a ragione delle altre non troppo. Comunque, se oggi 500.000 nostri connazionali vivono e lavorano nel solo Regno Unito, giusto per restare nell’attualità della Brexit, è per questo. In compenso è cominciata l’immigrazione. Massiccia.

Già, ma quanti sono questi immigrati oggi in Italia? All’incirca 5 milioni, pari all’8,2% della popolazione totale. La quale, ricordo, è di un soffio sotto i 60 milioni. Dei 5 milioni appena citati, però, 1,5 milioni sono comunitari mentre i rimanenti 3,5 milioni sono gli extracomunitari.

Romeno il gruppo più numeroso, poco più di 1 milione e 150 mila; seguito da albanesi, 467 mila; marocchini, 437 mila; cinesi, 271 mila; ucraini 230 mila; filippini, 165 mila, indiani 150 mila; moldavi 142 mila; bangladesi 142 mila; egiziani 109 mila. Queste le prime dieci “posizioni”.

Un altro dato smentisce un luogo comune: le donne sono il 52,6% dei residenti stranieri in Italia.

Dove si trovano? Emilia, 12%; Lombardia, 11,5%; Lazio 11%; Umbria, 10,9%; Toscana, 10,6%. Il Veneto, dunque, non occupa le prime posizioni.

Certo, parliamo di residenti regolari e non di richiedenti asilo o clandestini. E i disperati che attraversano il Mediterraneo in barcone? Quanti sono, per esempio, i richiedenti asilo? Parlando di richieste « (…) dai 26mila del 2013 si è passati alle 64mila del 2014, alle 83mila del 2015 fino alle 123mila del 2016. Ed i dati di gennaio 2017 indicano un ulteriore aumento del 41% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.» I rifugiati? Nel 2016 in Italia hanno superato di poco i 118 mila, meno che in Svezia, dove sono stati più di 169 mila.

Potrei continuare a elencare colonne di cifre, ma preferisco fermarmi qua. Se qualcuno vuole approfondire, si tratta di dati di pubblico dominio e facilmente reperibili. Adesso vorrei fare qualche riflessione.

La prima: come amo ripetere, «la memoria è corta per definizione.» Non fosse così, un popolo di emigranti come il nostro, che ha letteralmente riempito interi paesi, reagirebbe in modo diverso. L’aspetto più incredibile, poi, è rappresentato dagli interventi preoccupati di tante comunità italiane all’estero, angosciate da un fenomeno che sta cambiando volto alla penisola. Come se l’Italia dovesse rimanere per sempre quella fissata nei loro ricordi.

La seconda: siamo di fronte a un fenomeno migratorio di sicuro importante e che è necessario governare con attenzione e intelligenza, ma nient’affatto insostenibile, né delle dimensioni e neppure per la tipologia dei nuovi venuti. Siamo in grado di gestirlo, non solo, abbiamo la necessità di farlo a causa…

La terza: siamo in vista di una paurosa crisi demografica. Vale per l’Italia ma anche per la Germania e per molti altri paesi europei. Quando arriverà, al contrario di quanto credono gli sprovveduti non “staremo meglio perché più larghi”, ma saremo un paese di vecchi senza manodopera né servizi. Allora sì verremo “invasi”. Il vuoto demografico, lasciato crescere per inettitudine e accidia a dispetto della tanto sbandierata cultura tradizionale incentrata sulla famiglia, rischia di risucchiarci in un gorgo senza possibilità di fuga. Bisogna provvedere sotto l’urgenza delle circostanze. Siamo in emergenza. Adesso.

Conclusione: lamentarsi meno, integrare di più. Per integrare, bisogna insegnare lingua, cultura, un mestiere e dare la possibilità di lavorare. Tutto ciò sarà un grande vantaggio per noi prima ancora che risultare opportuno e/o giusto. Possiamo farlo? Sì, senz’altro. Ne abbiamo mezzi e capacità. Come al solito, però, serve un vero “piano strategico”, cioè un insieme coordinato di azioni condotte con un unico fine e concentrando risorse umane e materiali. È solo questione di volontà. Quanto al tempo comincia a essere scarso.