Nel 1912 lo scrittore tedesco Thomas Mann pubblicava una novella dal titolo Der Tod in Venedig (Morte a Venezia) destinata a lungo e vasto successo, alimentato in seguito dalla trasposizione cinematografica a opera di Luchino Visconti, nel 1971 e dal melodramma, scritto nel 1973, del compositore Benjamin Britten. Ispirata a un’esperienza realmente vissuta dall’autore nella primavera del 1911, come ricorderà la moglie Katia, Morte a Venezia è presto diventato uno dei testi emblematici per quanti si avvicinano alla città lagunare e cercano di spiegarne l’intima essenza. Spietato critico della società borghese, che sente estranea alla sua natura d’artista per l’assenza di spiritualità, Thomas Mann ingaggiò per l’intero corso dell’esistenza una dura lotta con la propria omosessualità, che lo spinse anche a pensieri incestuosi e a qualche gesto di troppo nei confronti del figlio Klaus detto Eissi. Adolescente al pari del Tadzio di Morte a Venezia. La città diventa nella novella il prototipo dell’antica bellezza corrosa da un male oscuro e per questo destinata presto alla fine. Sorte identica per lo scrittore Gustav von Aschenbach, il protagonista e alter ego di Mann e come lui invaghito dell’efebico Tadzio ovvero il Wladysław Moes della realtà storica.

Non è certo Mann l’inventore del Mito di Venezia quale simbolo della decadenza estrema di una nobile civiltà, ne troviamo traccia in molteplici autori di varia origine ed estrazione culturale, a partire almeno dai primi anni del XVIII secolo. La distruzione della Repubblica Serenissima e del suo governo aristocratico venne, del resto, in buona parte giustificata sul piano morale con tale pretesto. Oswald Spengler si è più che ispirato a Giovan Battista Vico, d’altronde, quindi niente di nuovo. La fortuna di Mann e della sua novella, però, obbligano a tornarci sopra ogni volta che l’argomento della Morte di Venezia riconquista la ribalta. Vale a dire quanto accade oggi con la caduta di “quota 50.000” di residenti in città. Da intendersi allo stesso modo del X secolo, vale a dire quale Civitas Rivoalti e null’altro. Niente Burano, Murano, Sant’Erasmo, quindi, ma neppure Lido e Pellestrina, men che meno Mestre, Marghera, Campalto, Tessera, perché solo Giudecca e Sacca Fisola vengono comprese. Insomma, Pietro II Orseolo svegliandosi nel Palatium oggi Palazzo Ducale resterebbe un po’ perplesso riguardo alle strane architetture e ai bizzarri arredi attorno a lui, ma poi senza altri dubbi si concentrerebbe sull’allestimento della flotta per salpare alla volta della Dalmazia, anche se è davvero difficile azzardare qualche cifra sugli abitanti di allora. Ci sarebbe da osservare che il suo Dogado si estendeva grossomodo da Grado a Chioggia, ma si tratta di dettagli.

L’occasione offerta da quota “50.000” è stata colta al balzo da tanti per ribadire la visione di una Venezia ormai giunta all’ultima curva, per quanto concerne le speranze di continuare a esistere quale città, riprendendo lo stereotipo del museo a cielo aperto caro a molti. La valanga di banalità rispuntata fuori grazie alla compiacenza ferragostana di organi di stampa stanchi di guerra in Ucraina e diatribe politiche nostrane è davvero ragguardevole. Sia per la mancanza di originalità nella critica che per la monotona incapacità di accompagnarla con almeno qualche proposta. Sempre tutto ciò appartenga all’ambito della realtà e non dei sogni. Perché dico questo? Per la banale ragione che i numeri non sono mai “oggettivi”, ma sempre da maneggiare con attenzione. Vediamo qualche esempio.

Il 6 agosto 2020 sul Corriere Fiorentino, l’equivalente in riva all’Arno del Corriere del Veneto per intenderci, Marzio Fatucchi lanciava un grido di dolore perché il numero dei residenti in centro storico, di Firenze ben s’intende, era sceso a quota 369.162 dai 376.529 del 2018. Roba da leccarsi i baffi in laguna, verrebbe da dire. Peccato che il concetto di “centro storico” dell’articolista, il quale lo cambiava per altro nel corpo del testo, fosse più ampio di quello del Comune di Firenze, secondo il quale il “centro storico” si limitava al Quartiere 1: poco meno di 65.000 residenti contro i precedenti oltre 66.000 secondo l’articolista, ma 64.009 per l’Ufficio Statistica del Comune. Fonte, opendata.comune.fi.it. Sia Fatucchi che il Comune inglobavano nel conteggio San Jacopino e alcune altre appendici quali i rioni di Piazza Puccini e le Cascine. Per il resto, i confini del Quartiere 1, in quanto per lo più racchiuso entro i viali di Circonvallazione cioè il perimetro delle mura cittadine abbattute nell’Ottocento, coincidono ancora con la Firenze della nostra immaginazione, cioè la città prima Comune e poi Signoria medicea cui tanto si deve sotto il profilo artistico e storico. A Firenze il totale residenti secondo il Comune è di 371.790: in centro storico, dunque, vive meno di un fiorentino su cinque, esattamente il 17%. A Venezia, tanto per dire, siamo al 19%.

Firenze come la Civitas Rivoalti, dunque. Potrebbe essere un caso. Allora ci spostiamo nella Pianura Padana e prendiamo l’esempio di Bologna Nel 2022 primo semestre, i bolognesi sono 391.382. Nei 4,5 kmq del suo centro storico abitano in 53.375, il 14% del totale dei bolognesi. Fonte: inumeridibolognametropolitana.it (Programmazione Controlli e Statistica Comune di Bologna). Anche qui l’area è quella racchiusa entro il perimetro delle antiche mura trecentesche, come a Firenze demolite per farvi correre i viali di circonvallazione… da cui il nome, mi viene da dire. Siamo dunque su un ordine di grandezza comparabile con quello della Civitas Rivoalti. I bolognesi che abitano fuori dal centro storico vi entrano con difficoltà viste tutte le limitazioni al traffico, la carenza di parcheggi e l’insufficienza della rete di trasporto pubblica, per lavoro, studio, acquisti, divertimento. Come a Firenze, del resto. Con una nota aggiuntiva: Bologna nel 1985 contava 420.000 abitanti e nel 2005 era scesa attorno a quota 380.00, risalendo lentamente nel corso degli ultimi anni.

Firenze e Bologna non sono esempi validi? Prendiamo Milano, allora. Dei suoi 1.371.058 abitanti, dato del 31/5/2022 in calo di circa 27.000 residenti tra l’altro, il Municipio 1 ne contava al 31/12/2019 99.518. Fonte: Milano e i suoi quartieri, comune.milano.it, aggiornato all’11/02/2022, allegato Milano Quartieri. Purtroppo i due dati sono sfalsati cronologicamente, ma la distanza temporale non è tale da alterare granché la valutazione. In sostanza, vive nel centro di Milano solo il 7% di quanti registrati all’anagrafe del Comune. Ed è piuttosto noto quanti, invece, siano coloro che ogni mattina salgono in metropolitana o sugli altri mezzi pubblici e/o privati per lavoro o studio.

Mi fermo qua, perché sarebbe troppo facile ripetersi con le grandi metropoli, anche solo europee. Londra e Parigi offrirebbero sponde magnifiche alla conclusione del discorso. La quale non può che essere una sola: quando si guarda a fenomeni di lungo periodo non si può restringere l’indagine a uno spazio e a un tempo limitati, ma affrontare la complessità di quanto avviene con strumenti adeguati alle domande poste. È impensabile analizzare una “città”, qualunque essa sia e quindi anche Venezia, operando un taglio del tutto arbitrario nelle sue dimensioni. Perché la Venezia di cui si favoleggia il crollo sotto i 50.000 abitanti non è mai stata soltanto la Civitas Rivoalti, qualunque altro spazio escluso, neppure al tempo di Pietro II Orseolo o prima e men che meno dopo. La città, al contrario, era ben più ampia e articolata. Nel passato come adesso. Un discorso che prescinde dalla ricognizione appena fatta, la quale mostra come le dinamiche veneziane non siano diverse da quelle riscontrabili altrove. Di cosa stiamo parlando, allora? Con buona pace di Thomas Mann, di tanta letteratura romantica che l’ha preceduto, di decadenti e futuristi, di nobili decaduti e giovanotti rampanti contemporanei, Venezia non è affatto un relitto alla deriva, destinato a venire inghiottito dalle onde ostili del presente. Sarà perché sul mare è stata costruita e dal mare ha tratto sostentamento e potere, tanto esteso da creare un Impero e costruirsi così come solo una smisurata ricchezza era in grado di permettere, ma non si vede proprio perché dovrebbe finire inghiottita dall’Adriatico o sprofondata di nuovo nella palude. Si è visto com’è andata con il M.o.SE: avversato, odiato, ritenuto dannoso oltre che inutile e oggi ringraziato perché, nonostante tutto e tanti, è pronto e funzionante. Giallo e magnifico, perfetto come nella mente di chi l’ha progettato. A proposito, quando la città si deciderà a onorare in modo degno il geniale ingegnere Alberto Scotti? Se non altro per ricompensarlo dei tanti e sconsiderati insulti di cui è rimasto vittima. Destino comune a molti a Venezia dove abbondano gufi e avvoltoi, pur non trattandosi di specie autoctone. Forse i malsani miasmi della laguna putrescente li fa sentire a loro agio quaggiù. Chissà…